Non sono bastati finestre aperte, banchi con rotelle, uso delle mascherine e del gel idroalcolico a fermare il dilagare della seconda ondata dell’epidemia di Covid-19 nelle scuole. Nonostante le parole rassicuranti della ministra Azzolina, virologi come Massimo Galli e Andrea Crisanti hanno recentemente dichiarato che la riapertura della scuola ha avuto un’importanza rilevante nella diffusione del virus.
Già alcune regioni come Lombardia, Campania e Puglia hanno decretato la didattica a distanza per le scuole secondarie di secondo grado e altre come la Sardegna sono prossime a ordinanze più restrittive che riguardano le scuola.
Da lunedì 26 ottobre 2020 molti studenti e docenti torneranno quindi alla tanto vituperata DaD, che pur con tutti i suoi limiti in questa situazione di emergenza dovrebbe contribuire a garantire la salute pubblica. Dunque via libera all’insegnamento da casa per limitare spostamenti non necessari, come suggerisce l’Istituto Superiore di Sanità? Non sempre. Nel caso della Lombardia e di altre regioni alcuni dirigenti scolastici ricordano che non è previsto il lavoro agile per i docenti, di conseguenza gli studenti seguiranno da casa le videolezioni, mentre i docenti usciranno dalle loro abitazioni, prenderanno i mezzi pubblici e si recheranno a scuola, entrando in contatto con altri colleghi e con il personale scolastico. Qui, all’interno di un’aula completamente vuota, si collegheranno con i loro studenti in videoconferenza. Una modalità quest’ultima alquanto discutibile, se si pensa che la finalità della didattica a distanza nel caso del Covid è quella di evitare gli spostamenti e l’affollamento dei mezzi pubblici, come avviene per tutti gli altri lavoratori della pubblica amministrazione collocati da tempo in smart working per lavorare da remoto. Tutto ciò in nome di una presunta autonomia che, come al solito, farà applicare questa scelta a macchia di leopardo.
Tra le ragioni addotte da chi sostiene la presenza degli insegnanti a scuola vi è il fatto che verrebbe meno il diritto alla disconnessione. Quest’ultima in realtà non corrisponde al diritto di non lavorare da casa bensì al non dover essere costantemente reperibili, in particolare durante il periodo di riposo. Sta di fatto però che quando il lavoratore è a casa e sta lavorando in modalità smart working è appunto al lavoro, non certo a riposo, e viene quindi meno il diritto alla disconnessione.
Altra ragione addotta riguarda il trattamento e la conservazione dei dati personali, in particolare al fatto che sul luogo di lavoro il trattamento dei dati avviene sotto la responsabilità del datore di lavoro mentre a casa no. Non è chiaro però perché entrambe le suddette ragioni non siano un ostacolo per altri lavori, anche nel settore pubblico, mentre per la scuola sì. Forse perché in altri settori i lavoratori sono dotati dal datore di lavoro di attrezzature con elevati standard di sicurezza? In tal caso allora il problema sarebbe altrettanto aggirabile anche per il settore scuola fornendo gli insegnanti di attrezzature che garantiscano un alto livello di sicurezza.
Infine c’è da considerare che alcune scuole potrebbero non disporre di un adeguato supporto della rete rispetto a un elevato numero di connessioni video, e gli insegnanti potrebbero trovarsi più a proprio agio nell’utilizzare le proprie attrezzature personali anziché quelle presenti a scuola. Più ragionevole sarebbe lasciare la possibilità di scelta al singolo insegnante.
Qual è allora il senso di questo provvedimento? È necessario accertarsi che i docenti svolgano effettivamente il proprio lavoro avendoli a scuola in presenza? Ricordiamo che la DaD prevede attività sincrone e asincrone, invece spesso si assiste a dirigenti che obbligano gli insegnanti a riproporre se non tutto quasi per intero il loro orario in presenza, costringendo gli studenti a trascorrere numerose ore davanti al PC.
Rimane un ultimo dubbio: lavorando a scuola d’inverno, i docenti non potranno di certo farlo in aule non riscaldate. Tutto ciò avrà un certo impatto sui consumi, cosa che si sarebbe potuta evitare.