Secondo le prime indiscrezioni trapelate dalle consultazioni che il Presidente del Consiglio incaricato Mario Draghi sta tenendo in queste ore con i partiti emerge che uno degli aspetti su cui intervenire nel settore dell’istruzione potrebbe essere il prolungamento del calendario scolastico. Dovrebbe essere una misura eccezionale, per fronteggiare l’emergenza covid, ma resta il timore che come al solito si pensi di intervenire sulla quantità più che sulla qualità della scuola.
Prima di aggiungere altro è doveroso ribadire alcune cose. Ad esempio che durante la pandemia la didattica si è comunque svolta in presenza, in particolare nella scuola dell’infanzia, nella primaria, nella secondaria di primo grado e per gli studenti con bisogni educativi speciali, cioè nei casi in cui la dimensione relazionale è essenziale. Laddove ciò non è stato possibile, nelle scuole superiori, la DAD che per tanto tempo è stata invocata come l’inevitabile futuro di una scuola immobile da secoli sembra ora essere diventata la causa di tutti i mali. Certamente per gli insegnanti che l’hanno utilizzata non è stata un futile gioco o un’interruzione dell’attività didattica, né dovrebbe esserlo stata per gli studenti delle scuole superiori. Come dire che dopo un anno e mezzo trascorso fra le mura di casa ora non mettetevi in testa di andare al mare o in vacanza a incentivare il turismo. Tutti a scuola nella calura estiva, magari in corrispondenza con gli scrutini o durante gli esami, a recuperare l’unica cosa che in realtà non è mai mancata.
Tornando alle modifiche al calendario scolastico, sembra di capire che per porre rimedio a ciò che è venuto meno dal punto di vista educativo a causa della pandemia la soluzione sia quella di parcheggiare gli studenti fisicamente a scuola, magari con un anno scolastico quantitativamente “rinforzato” a scapito del periodo delle vacanze estive.
Per fare questo basterebbe far restare gli insegnanti a scuola il più a lungo possibile, visto che in fondo, come si dice sovente, pare che lavorino solo 18 ore a settimana, metà del tempo rispetto a chi sta per 36 ore dietro una scrivania.
Di fronte ad uno scenario del genere il pensiero non può non andare a nazioni come la Finlandia, dove gli studenti vanno a scuola quattro giorni a settimana e alcune volte hanno due ore di lezione al giorno eppure raggiungono i migliori risultati a livello mondiale, anche perché sono seguiti da insegnanti il cui ruolo all’interno della società è riconosciuto e apprezzato.
Molto più facile però intervenire sulla quantità piuttosto che intervenire organicamente sul reclutamento, sulla formazione e la progressione di carriera del personale docente. Rivedere il reclutamento significherebbe selezionare insegnanti meritevoli di tale nome, attirandoli per mezzo di retribuzioni in linea con quelle degli altri Paesi europei, che li valorizzerebbero, ne eleverebbero lo status e la considerazione sociale. Il fatto è che valorizzare, ad esempio aprendo alla progressione e alla creazione di posizioni intermedie tra l’insegnante iniziale e il dirigente scolastico, implicherebbe un riconoscimento concreto. Valorizzare la professione insegnante, dare cioè ad essa il giusto valore, prima di tutto economico, risulterebbe in contrasto con scelte politiche che per decenni hanno preferito rimpinguare i bilanci di altri comparti lasciando all’istruzione le briciole.
Il rischio è che qui da noi, come sempre, si scelga di intervenire sulla quantità più che sulla qualità. Non possiamo permettere che succeda anche questa volta.